Un libro per raccontare la storia di un’azienda, il destino di un marchio storico, l’esperienza umana e professionale. A firmare “La mia vita con una bionda” è Rudi Pieroni. Un cognome che spiega subito chi sia la bionda e perchè gli abbia segnato il destino.
Maturità ’56, Rudi Peroni è stato allievo del Massimo dalle medie al liceo. E a noi, ex alunni, ha voluto regalare quest’intervista e la sua esperienza come imprenditore e come persona.
“Sono nato nel ’38 – racconta Peroni – ho iniziato le elementari a casa e le ho finite nella scuola comunale. In prima media sono entrato nell’Istituto dei Padri Gesuiti e sono uscito in terza liceo classico insieme a Giulio Viola. La nostra è stata una classe particolare: siamo rimasti sempre molto legati tra di noi. Ogni primo giovedì del mese abbiamo un tavolo riservato in un ristorante dove ci incontriamo sempre. Per noi il Massimo non è una sorta di amarcord ma siamo davvero cresciuti insieme, siamo rimasti amici nelle varie fasi della vita. E così il nostro è un incontro dove ci si ritrova, ci si aiuta. L’Istituto ci ha insegnato ad essere parte di un gruppo. E questo Massimo è quello che è rimasto nel cuore di tutti”. Compagni di scuola e compagni di viaggio. Un pensiero di Rudi Peroni va ad Alberto Parisi “padre spirituale di noi del ’56”.
Dopo il liceo, la vita e il lavoro. E le strade si dividono. Per Rudi Peroni prima gli studi poi l’ingresso, giovanissimo, in azienda. E alla fine di questa esperienza intensa la decisione di scrivere un libro.
“Sono andato in pensione dopo 43 anni – ricorda sorridendo – ed ho pensato di raccogliere le mie idee per descrivere uno spaccato della vita industriale ed imprenditoriale italiana”.
E da qui inizia il racconto, la vita, l’esperienza sul campo. “Noi e mio padre siamo nati a Roma ma la nostra famiglia è di origine piemontese. Sono entrato in azienda nel ’60 (mi sono laureato a 22 anni in Economia e Commercio) e l’ho lasciata nel 2002. Mio padre ha voluto che cominciassi subito a lavorare perchè non stava bene anche se non aveva detto niente a nessuno. Mi ricordo che voleva che stessi vicino a lui più tempo possibile: dopo 3 anni è morto. Mi ero appena sposato e quando sono tornato dal viaggio di nozze lui se n’è andato. Da lì è cambiata la mia vita. Da allora sono diventato amministratore dellegato e lo sono rimasto per 30 anni e a 40 anni sono diventato presidente dell’Unione industriali di Roma”.
Come definirebbe quest’esperienza?
“Sono stato per molti anni presidente di un’associazione di categoria e ritengo questa un’attività importante e in prima linea per la difesa delle varie istanze di chi lavora. Non sono mai entrato in Confindustria perchè sono relativamente critico verso quel mondo e ho idee diverse su chi deve partecipare a questo consesso: più industrie manifatturiere che rappresentanti del mondo della Finanza e dei servizi. L’industria manifatturiera è l’unica che crea ricchezza, nella Finanza c’è uno che perde ed uno che guadagna”.
Industria e famiglia: come è cambiata la Peroni?
“La nostra era un’azienda è di carattere familiare con un azionariato relativamente ristretto che nel tempo si è allargato per la natura stessa della vita. Io sono la quarta generazione e mio figlio è la quinta. Nel 2002, dopo che avevo lasciato da sei mesi, abbiamo venduto la Peroni dopo aver ricevuto proposte dalle multinazionali della birra. E non potevamo non accettare. C’è stato accordo tra tutti e poi l’operazione è stata fatta in un momento molto favorevole: la Peroni era la numero due del mercato dopo una grande multinazionale. Così chi voleva entrare in Italia doveva fare accordo con noi. Nel mercato il primo guadagna, il secondo anche, il terzo a stento sopravvive e il quarto perde. Così abbiamo ceduto la Peroni ad un gruppo sudafricano-americano (la Sab-Miller) che adesso la sta gestendo da multinazionale: prendendo tutto il buono ed eliminando le nostre non capacità finanziarie per poterla svuiluppare in Italia e nel resto del mondo”.
Come ci si può avventurare nell’imprenditoria di oggi? E quanto in questo mondo pesa la “matrice” del Massimo?
“Premetto che mio padre ha studiato per molti anni a Mondragone e che l’educazione dei Gesuiti ha impregnato profondamente la nostra famiglia. L’educazione del Massimo ha lasciato moltissimo in me: in primis nell’affrontare la vita con senso di giustizia e responsabilità. Parlo di giustizia intellettuale. Questo mi è stato fortemente trasmesso dalla scuola e dai gesuiti: il miglior professore che ho avuto è stato Del Pinto, che mi ha insegnato alle medie. Una figura che ha influito profondamente su di me. E chi ha studiato con i Gesuiti ha la stessa matrice. Dovevo assumere un direttore per l’Unione Industriali di Roma. Tra i tanti c’era uno che aveva studiato al Massimo: l’abbiamo preso ed è stato il migliore di tutti. Altro valore importantissimo: il Massimo ci ha fatto sempre sentire l’appartenenza ad un gruppo”.
L’imprenditoria e gli imprenditori di oggi?
“Sono stato un fortunato. Ho avuto tanti privilegi: il primo è stato quello di chiamarmi in un certo modo. Fortunato anche per il periodo storico in cui sono nato. Ho vissuto la guerra con occhi da bambino e dopo abbiamo avuto un periodo di grande sviluppo, Quando è scoppiata la contestazione eravamo uomini già fatti e non avevamo problemi ad inserirci nel mondo del lavoro. Oggi è tutto diverso. L’università è un parcheggio per i giovani che non sanno come entrare nella realtà produttiva. L’insegnamento che vorrei dare a un giovane è quello di rischiare. Il giovane, per definizione, deve poter rischiare: poter cambiare anche il proprio mestiere e la propria posizione. So che è difficile perchè quello di oggi è un mondo in recessione ma non si deve credere di non poterlo fare. Poi vorrei dire ai ragazzi di essere intellettualmente dei galantuomini, perchè esserlo credo che alla fine paghi”.
Come vede questo mondo?
“Molto difficile. Se parliamo di impresa credo che l’impresa famigliare abbia difficoltà di andare avanti per il mondo che ci circonda (burocrazia in primis e dopo la politica). Le industrie hanno fatto la fortuna di nostro paese e ancora sono in grado di farla se si resta nei limiti di piccola e media azienda. Quando hanno cercato di diventare più grandi non sono sovravvissute e dobbiamo domandarci perchè. In Italia di dimensioni veramente internazionali ci sono solo la Luxottica e la Ferrero. E vivere in un mondo globalizzato è difficile.
Probabilmente la generazione miei genitori, nel dopoguerra, ha pensato che cosa più importante fosse ricostruire il nostro paese e si è gettata nel mondo economico e bancario pensando che non ci si doveva coinvolgere nella parte politica. Un errore che ha creato dei mostri che poi hanno generato altri mostri…
L’esperienza è l’alibi dei vecchi, la fiducia nei giovani è la speranza. Si deve dare spazio ai giovani. Sempre”.
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